Nella seconda fase, il diffondersi nelle terre del granducato delle pretese fiorentine all'egemonia culturale e anche linguistica induce nei letterati senesi reazioni ambivalenti e contraddittorie: ormai destinata a rivestire una posizione marginale nel dibattito storico e politico, l'élite intellettuale si divide tra l'attrazione esercitata dai modelli importati dalla capitale e la nostalgica rivendicazione delle tradizioni anche linguistiche locali.
Semplificando, è possibile rinvenire in questo periodo due correnti parallele, orientate però in direzioni opposte. Da un lato, il filo rosso che collega i diversi lettori di lingua toscana, ossia la nuova condotta dello Studio senese voluta da Ferdinando I nel 1589 su richiesta dei numerosi studenti tedeschi e per diffondere il nome e i tratti del toscano fiorentinizzato di stampo cruscante; dall'altro lato, il movimento che si coagula intorno al "risorgimento" dell'Accademia degli Intronati (1603) e in particolare alla figura di Scipione Bargagli e al dialogo Il Turamino, pubblicato nel 1602. L'eredità di Diomede Borghesi, primo lettore di "toscana favella", è raccolta da letterati quali Girolamo Buoninsegni (Primi principi della grammatica toscana, 1612), Teofilo Gallaccini (Libro de' sinonimi toscani, inedito, 1629), Ubaldino Malavolti (Mostra di tutti i verbi [...] nel Decameron del Boccaccio, 1645), Giulio Piccolomini (Istituzione facile per parlare puramente toscano, inedita, ca. 1650). Sull'altro versante, Bellisario Bulgarini, Giulio Cesare Colombini nei Contrasti studiosi dell'idioma toscano (perduto, ca. 1609), Adriano Politi e, con diverse riserve, Celso Cittadini sostengono l'uso del volgare materno, modificando sulla base del dettato del Turamino non solo eventuali precedenti convinzioni teoriche in fatto di lingua, ma gli stessi tratti fonetici e morfologici - in rari casi persino lessicali - del proprio uso scritto.